Teth. Si pronuncia con la punta della lingua sul palato, un po’ più intensa della t di tango. È il geroglifico della protezione, della solidità, del tetto, dello scudo.
Ecco anche l’ultima lettera dell’alfabeto sacro, che ancora ci restava da scoprire. È la T di tov, «buono», «perfetto» (in geroglifico: «chi è ben protetto in se stesso, nel proprio animo»), e anche di tameh, «impuro» (colui, cioè, da qualche bisogna proteggersi). Sembra proprio il pittogramma di una fortezza, vista dall’alto, con il suo corridoio d’ingresso ben munito. E nel nome di questo Angelo si combina con la lettera samekh, anch’essa talmente difensiva! Nel ritratto è spiegato perché e con quali conseguenze: i protetti di Seyta’el sono, da un lato, bravissimi a proteggere qualcuno; dall’altro, si sentono isolati, radicalmente diversi dai loro contemporanei. E se provano a indagare le ragioni di questa loro diversità, hanno facilmente la sensazione di scendere verso altre epoche passate, proprio come nelle segrete di un castello… È come se in loro la precedente reincarnazione non si fosse del tutto conclusa, e ancora li chiamasse e volesse far udire le proprie ragioni: in tal modo si esprime qui quella «…e» che, l’abbiamo visto, è una caratteristica decisiva degli Angeli di questo periodo, i Serafini.
E, badate bene, questo riferimento al karma non è affatto una metafora, né un’interferenza di altre tradizioni religiose. Gli Ebrei – e, a mio parere, anche gli Egizi – credevano nella reincarnazione: perfino la Bibbia ne parla, per esempio nell’episodio dell’eroico Razis, che mentre si uccideva per non essere catturato dai nemici «invocò il Signore della vita e dello spirito, perché di nuovo glieli restituisse» (2 Maccabei 14,46), E perfino nel Vangelo, in due punti indubbi:
In quel tempo Erode, il tetrarca, udì parlare della fama di Gesù, e disse ai suoi: «È Giovanni Battista, che è resuscitato dai morti: e perciò il potere dei miracoli agisce in questo Gesù»
Matteo 14,1
E:
Passando, vide uno nato cieco; e i suoi discepoli gli domandarono: «Rabbì, chi ha peccato perché nascesse cieco: i suoi genitori, o lui stesso?»
Giovanni 9,1.
Infatti, come si può aver peccato prima di nascere, se non in una vita precedente? L’altro passo, quello di Erode, documenta una particolare forma di reincarnazione, individuata dagli Ebrei: il cosiddetto ibbur (letteralmente: «importazione»), cioè la possibilità che nell’io di qualcuno venga ad abitare temporaneamente l’io di un defunto, che in vita non era riuscito a fare tutto quel che si era proposto, e che perciò desidera avere ancora un supplemento di tempo. Durante tale sua permanenza nel vivo, il defunto conferisce a quest’ultimo anche i suoi poteri, oltre ai suoi modi di pensare, ai suoi sentimenti, spesso addirittura ai suoi ricordi. E il vivo può anche non accorgersene, e notare soltanto di essere molto cambiato ultimamente…
Molto interessante è l’aspetto psicologico di questa credenza dell’ibbur: ciò che ne deriva, infatti, è che l’elemento per noi più evidente, più sicuro, più intimo d’ogni altra cosa al mondo, il nostro concretissimo io (nostra Teth, nostra Samekh) può non essere affatto nostro di tanto in tanto. Possiamo non essere noi, a vivere le nostre giornate. Non capita a tutti, beninteso: solo a quelli che al proprio io non hanno mai dato il giusto valore, e che non lo conoscono, e non sanno ascoltarlo, adoperarlo. (Quella frase di Erode era dunque assai irrispettosa, nei confronti di Gesù). Se non ti curi della tua fortezza interiore, insomma, è facile che qualcun altro se la pigli. Parlatene, magari, con l’Angelo di questi giorni, e vi darà certamente ottimi consigli.
Continua..
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