Navigando nelle infinite possibilità dell'essere

170. VORREI CHE I MIEI FIGLI…

 

Vorrei insegnare ai miei figli a non aver paura della sofferenza, perché in questo mondo ce n’è tanta e occorre imparare a comprenderla per saperci avere a che fare, per non viverla come un nemico da combattere ma come un amico che ti mostra qualcosa di importante. Certo che non va cercata, ma quando la si incontra è opportuno ascoltare cosa ha da dirci e agire. Senza paura.

Se la ascoltiamo bene ci suggerisce un’azione interiore prima ed esteriore poi. A volte ci spinge a cercare una distanza diversa da qualcuno, da qualcosa. A volte quel dolore c’è perché stringiamo troppo quel qualcuno o qualcosa.

Vorrei che i miei figli imparassero l’arte della giusta distanza, che è come quella dal fuoco: troppo vicino ti bruci, troppo lontano non senti il suo calore.
Vorrei che i miei figli imparassero a trasformare il dolore in amore.
Vorrei che imparassero a stare in compagnia del loro dolore, quando si presenta, perché il suo rifiuto genera rabbia e la rabbia acceca.

Alcuni “no” che riceveranno, probabilmente faranno molto male; vorrei che non fuggissero da quel dolore ma che imparassero a starci insieme, a vedere che quel sentire spiacevole ha bisogno di accettazione e accoglienza per potersi trasformare…

Vorrei che i miei figli imparassero a offrire a se stessi quello sguardo che vorrebbero ricevere dagli altri. Vorrei che si sentissero unici, e che onorassero questa unicità così che possano rispettare e onorare anche quella degli altri.

Vorrei che si sentissero amati così come sono. L’amore c’è a priori, non occorre essere speciali per essere amati. C’è amore, non si può vedere ma si può sentire e ci si può sentire amati. Ma occorre sapere ascoltare…

Vorrei che si sentissero amati, non solo da me o da qualcuno in particolare, ma da tutto quello che c’è, come condizione esistenziale.
Vorrei che comprendessero che nulla e nessuno potrà mai renderli felici, perché quello che cercano tutti quanti è una condizione dell’essere e si crea da “dentro”.
Vorrei che non avessero paura della vita, ma per vedere la sua magnificenza dovrebbero lasciar emergere quello sguardo che ne riconosce la sua infinita, amorevole intelligenza.
Vorrei che non avessero paura della morte e che imparassero anzi a morire in ogni istante in modo da darsi la possibilità di rinascere sempre, di essere sempre nuovi.
Vorrei che facessero amicizia con la parola “fine”, comprendendo che è solo ciò che viene prima di un nuovo inizio.
Vorrei che imparassero a lasciar andare ciò che deve andare, che sia una vecchia credenza, un’immagine di sé che non serve più, un progetto ormai senza energia, una persona che vuole andare…
Vorrei che imparassero a vivere con le mani aperte e non con i pugni chiusi.
Vorrei che non tradissero se stessi, mai, e che non chiedessero ad alcuno di farlo.

Vorrei che imparassero a ringraziare, non per quello che ottengono, non per i successi; il grazie è una casa da abitare, è una frequenza nella quale prender dimora e guardare tutto da lì. Guardare da lì vittoria e sconfitta, l’avere e il non avere, l’essere e il non essere, il piacere e il dolore… Allora sì che potranno vedere veramente.
Vorrei che non avessero paura di osare e osare ancora per conoscere sempre più a fondo le leggi dell’universo di amore, saggezza e unità. Chi osa può cadere molte volte, ma ogni volta può rialzarsi ancora più forte di prima.

Vorrei che imparassero a star da soli per comprendere che non esiste solitudine. L’isolamento in un universo di connessione non è possibile. La solitudine accade quando si chiude il cuore a questa connessione.
Vorrei che si difendessero con l’apertura anziché con la chiusura e che fossero astuti come serpenti e puri come colombe.
Vorrei che vivessero in accordo alla regola aurea che dice: “Non fare all’altro quello che non vorresti fosse fatto a te”. Da madre è quello che vorrei.
So che non basta, però, volere ma occorre sia educare con l’esempio sia accettare anche che possa non esser così.

Ogni figlio ha, infatti, la sua storia, il suo piano di studi, le sue lezioni. A volte sono lezioni dolorose anche per i genitori e queste lezioni sono rese ancor più difficili dal senso di colpa. Proviamo a lasciar andare la colpa e a sentire la responsabilità.

La responsabilità senza la colpa permette di imparare dai propri errori, per poter crescere, conoscersi, maturare.
La colpa fa rimanere legati all’errore, al giudizio di sé e/o dell’altro mentre la responsabilità porta a rialzarsi e a ripartire sempre.

La responsabilità non vissuta come peso del dovere ma come possibilità di essere co-creatori della propria vita. Ogni figlio rende la madre, il padre, vulnerabile, fragile poiché, il genitore, pur desiderando proteggere il proprio figlio dalla sofferenza, diventa consapevole che non è possibile. Ma questo sentirsi inermi di fronte al dolore può divenire occasione di umiltà, di silenzio, e di morbidezza. È questa morbidezza che rende permeabili alla vita e che permette a qualunque momento di attraversarci senza incontrare resistenza.

Che ogni attimo di vita possa attraversare libero il nostro cuore e continuare il suo viaggio verso casa.
Che ognuno di noi possa essere quel calderone alchemico in cui il dolore può trasformarsi in amore.

Carlotta Brucco

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