Molto spesso i ricercatori spirituali lavorano talmente tanto su di sé che perdono di vista gli altri. Quando soffriamo, l’io è al centro della nostra attenzione; siamo concentrati su di noi perché crediamo che quello sia il modo migliore per uscire dallo stato doloroso. Ma non è così.
Dare troppa importanza alla nostra sofferenza la rende più rigida e questo impedisce il suo naturale deflusso. È buona cosa ascoltarsi e prendere consapevolezza a livelli sempre più profondi di sé, ma questo non deve far perdere di vista la sofferenza che prova il resto del mondo. Prendersi cura solo di se stessi è un modo per ingigantire i propri problemi fino a farli diventare un peso insormontabile.
Dobbiamo ricordarci che la vita ci ama e non accade nulla che non sia per offrirci la possibilità di ritornare all’amore.
Proprio questo è il messaggio per noi contenuto in ogni sofferenza: “Ama”. Quale più grande medicina quindi del rivolgere il nostro sguardo al dolore altrui con l’intenzione di agire per porvi rimedio?
Quando stiamo male non abbiamo molta voglia di curarci anche degli altri, ma se comprendiamo che è proprio questo atteggiamento amorevole a essere la nostra medicina, saremo in grado di andare oltre il primo momento faticoso e riusciremo ad aprirci veramente.
Accadrà allora come una magia: la nostra sofferenza si ammorbidirà e ritornerà a scorrere nel flusso, di conseguenza diventerà più semplice averci a che fare.
Non dobbiamo avere compassione di chi ci sta di fronte per sentirci buoni ma per essere felici! La compassione è proprio il sentire la sofferenza dell’altro fino a desiderare veramente la sua felicità tanto da essere spinti all’azione con i mezzi che abbiamo a disposizione.
Una mia amica era solita pensare in continuazione alle proprie magagne che raccontava indistintamente a tutti quelli che incontrava. Un giorno andò a Calcutta perché sotto l’eccessiva cura di sé c’era un grande cuore che chiedeva attenzione. Passò giorni con gli ultimi degli ultimi, si sporcò le mani, imboccò gli infermi, ballò per far ridere i disabili, baciò i bambini malati uno a uno senza preoccuparsi di poter essere infettata.
Ogni tanto mi telefonava per raccontarmi: sembrava un’altra persona. Mai nemmeno una volta mi parlò dei suoi problemi e dalla sua voce si percepiva un grande amore e anche una grande gioia. Non mi parlò mai di sé ma di loro, di come la chiamavano, degli abbracci che aveva dato, e sorrideva senza mai lamentarsi dell’incredibile fatica che stava facendo.
A volte mentre mi parlava scendevano lacrime sul suo volto per le allucinanti situazioni che vedeva tutti i giorni, ma non c’era giudizio, rabbia… solo amore; non c’era la presunzione di sapere come fare per cambiare le cose…solo quell’apertura che porta al Non So ma che fa agire con tutti i mezzi che si hanno a disposizione.
Questa mia amica là a Calcutta vide talmente bene la sofferenza degli altri che perse di vista la propria lasciando così solo spazio per l’amore. Splendeva di una bellezza rara e preziosa.
Anche se non andiamo a Calcutta possiamo qui, dove viviamo, riconoscere la sofferenza negli occhi di tutti quelli che incontriamo e sentire il grande desiderio che siano felici. Possiamo aprirci al dolore dell’altro fino a non sentire quasi più il nostro e possiamo agire in accordo alle nostre capacità, ai nostri mezzi per essere strumenti di amore.
Non occorre che le cose vadano come vogliamo noi per essere felici, occorre lasciar follemente spazio all’amore; un amore che non può vivere nel controllo, nella sicurezza, nella certezza, nell’abitudine, un amore che non chiede di sapere, un amore che è più forte del tempo, dello spazio, di ogni problema, dolore, pensiero, di ogni limite, un amore che chiede solo la nostra fiducia e il nostro sì per poter inondare la nostra vita di una così grande gioiosa libertà che non abbiamo mai nemmeno immaginato…
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