Da ragazzina ero una combattente. Non a caso facevo scherma. In realtà, da bambina piccola, piccola non ero affatto. Lo sono diventata dopo i tre anni con l’asilo, quando mi sono accorta che questo mondo era peggio di una giungla e che avrei dovuto cercare di sopravvivere. Allora ho tirato fuori la spada… in tutti i sensi… e via!
Mi sono battuta per essere, alle elementari e alle medie, una delle migliori (al liceo avevo già un’altra visione della cosa), per essere tra le più brave a tutti gli innumerevoli sport che praticavo, per avere tanti amici, per essere leader negli ambienti che frequentavo, per essere apprezzata ecc… finché ho incontrato la mia guida e il sentiero che conduce a Casa.
A quel punto ho imparato che la porta della libertà non si apre con il combattimento ma con la resa. È stato un bel cambio di prospettiva!
A un certo punto della mia vita ho smesso di preoccuparmi e ho iniziato a creare ciò che avevo a cuore affidando ogni risultato a Dio.
L’attaccamento al risultato crea il combattimento, una guerra che non è possibile vincere. Ci hanno insegnato a vivere per gli obbiettivi da realizzare e questo ci porta inevitabilmente lontano dal momento presente, l’unico luogo della coscienza dove è possibile la felicità. Non voglio dire che non sia corretto porsi delle mete, ma che, quando il risultato diventa più importante del momento presente, si vive in un costante stato di ansia e preoccupazione più o meno conscia.
Iniziamo dalla scuola: è cosa sana che un bambino la viva sempre in ansia? È giusto combattere una guerra interiore per imparare? Se a un bambino viene insegnato a leggere appassionandolo momento per momento a quello che sta facendo, nessun voto sarà necessario, così nessuna stressante competizione e nessun castigo. Se un ragazzo segue ciò che ama o gli si fa amare ciò che è necessario per la sua educazione, non dovrà essere spinto a fatica con ogni mezzo. Se un adulto riesce a fare della sua passione un lavoro, non dovrà nutrirsi di obbiettivi per andar avanti perché sarà soddisfatto di ogni suo momento e in ogni suo momento riuscirà a dare del suo meglio così che i migliori risultati arriveranno di conseguenza.
Ci viene insegnato a sopravvivere ma non a vivere felici. Questo mi rattrista talmente tanto che sto diffondendo nelle scuole un nuovo progetto che si chiama “Educare alla Felicità”. Vorrei diventasse una vera e propria materia.
Tempo fa, grazie ai miei maestri, ho capito che il segreto è portare ogni meta nel qui e ora. L’obbiettivo è essere felici in questo preciso istante e non in un remoto futuro quando forse realizzeremo ciò che ci sta a cuore.
Non dobbiamo pensare che sia necessario avere i risultati che desideriamo per poter vivere in pienezza; questo è un errore concettuale che ci causa grande sofferenza. Ci mancherà sempre qualcosa in questo modo.
La nostra volontà dovrebbe servirci per abbracciare questo istante tanto da renderlo un meraviglioso atto creativo in tutti gli ambiti della vita, e non per pensare continuamente ai risultati che speriamo di ottenere.
Arrendersi vuol dire smettere di combattere per mete future e lasciarsi abbracciare da questo prezioso istante come fosse l’ultimo, dando il meglio di sé ma senza preoccuparsi dei risultati.
Arrendersi vuol dire fidarsi della vita, come una madre buona e amorevole e non come una dalla quale difendersi; mettere tutti i risultati nelle mani di Dio e occuparsi unicamente di questo istante per accoglierlo e per creare passo passo in accordo a ciò che siamo.
Spesso in cuor mio mi chiedo come sia possibile che una madre buona e amorevole possa permettere tanto dolore nel mondo. Me lo chiedo da anni o meglio lo chiedo all’Infinito Intelligente. Quando la risposta arriva mi fa percepire chiaramente che incredibilmente è tutto motivato dall’amore. Ogni sofferenza ci spinge verso quella parte del nostro essere dove c’è la porta per la libertà.
Ho proprio sentito che nel dolore non siamo soli, non siamo mai lasciati soli. Questo è meraviglioso e bisogna divenirne consapevoli. Il dolore ci ferma dall’ipnosi collettiva per un attimo a ricordarci che la nostra vera natura è altra da ciò che crediamo, da ciò che pensiamo.
Non siamo nemmeno separati da tutto come sembra, piuttosto siamo uno, una sola presenza d’amore. Il dolore, con la sua struggente forza, sembra spingerci a vedere oltre ciò che appare. No, non è il benvenuto e non lo augurerò mai a nessuno, ma quando accade facciamo in modo che sia una possibilità per noi di andare ancora più spediti verso l’amore.
Quando combattiamo, il dolore si irrigidisce, non può fluire. Nella resa la sofferenza si ammorbidisce fino a sparire.
Non confondiamo la resa con la rassegnazione; la prima porta sempre libertà, la seconda stagnazione. Nella rassegnazione non c’è accettazione, mentre la resa è un abbraccio sempre più tenero a tutto ciò che c’è, a tutto ciò che accade.
La vita, Dio o l’Infinito Intelligente è con noi, non contro di noi, e ci spinge a fiorire. Questo accade anche attraverso ciò che non vorremmo mai accadesse.
Arrendersi alla vita vuol dire accoglierla in ogni sua manifestazione, così che possa rivelarci la sua magnificenza qualunque sia il momento che siamo chiamati a vivere. Anche se non comprendiamo ancora il motivo di alcuni accadimenti, ci viene chiesto di andar oltre il voler capire razionalmente, aprendoci all’infinito amore che sempre è in noi, fuori di noi, noi e tutto.
Arrendiamoci a questo amore… anche se non lo sentiamo ancora, arrendiamoci lo stesso, questa è la resa che ci porterà a Casa. Ricordiamoci che questo amore è invisibile agli occhi della mente; solo il cuore che pulsa uno con tutto l’universo ha il potere di sentire questa naturale forza, sostanza di tutto.
Quando creiamo passo passo insieme alla vita, lasciando a Dio il potere e togliendolo all’io, accade quello che Gesù raccontava nel Vangelo nella parabola di Matteo 6,25-34:
25 Perciò io vi dico: Non siate con ansietà solleciti per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete. La vita non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Osservate gli uccelli del cielo: essi non seminano, non mietono e non raccolgono in granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? 27 E chi di voi, con la sua sollecitudine, può aggiungere alla sua statura un sol cubito? 28 Perché siete in ansietà intorno al vestire? Considerate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; 29 eppure io vi dico, che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito come uno di loro. 30 Ora se Dio riveste in questa maniera l’erba dei campi, che oggi è e domani è gettata nel forno, quanto più vestirà voi, o uomini di poca fede? 31 Non siate dunque in ansietà, dicendo: “Che mangeremo, o che berremo, o di che ci vestiremo?”. 32 Poiché sono i gentili quelli che cercano tutte queste cose; il Padre vostro celeste, infatti, sa che avete bisogno di tutte queste cose. 33 Ma cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque in ansietà del domani, perché il domani si prenderà cura per conto suo. Basta a ciascun giorno il suo affanno».
Queste meravigliose parole mi accompagnano quotidianamente e cerco di non dimenticarle mai.
Quando vedo che i miei pensieri cercano, attraverso qualunque risultato nel futuro, di portarmi fuori da questo momento, vedo Gesù accanto a me dirmi: “Che fai? Torna qua… Sii come un giglio del campo… Risplendi in accordo alla tua natura, crea tutta la bellezza che riesci per onorare il creato e lascia ogni risultato a Dio”.
Queste parole vengono sussurrate incessantemente a ognuno di noi. Vi auguro di sentirle proprio in questo momento in modo che ogni vostro peso voli via per sempre.
Carlotta Brucco
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grazie di cuore per questo speciale articolo che è arrivato al mio cuore
… fa riflettere! Un grazie dalla mia Anima
non è facile soprattutto quando hai la responsabilità di altre persone.