
Cosa si intende esattamente con l’espressione “donare è un piacere”?
L’altro giorno una signora mi raccontava che è molto contenta di fare volontariato in una certa associazione perché la fa sentire una persona utile. Così come un amico dice spesso che aiutare i suoi vicini lo fa sentire apprezzato. E ancora un’altra amica parla di come dedicarsi completamente ai figli la faccia sentire una brava madre.
Di contro, io ritengo che il piacere che deriva dal sostenere una certa immagine di sé, sia un piacere effimero, falso, come la sensazione di dipendenza causata dalle droghe, di cui non si può fare a meno per evitare di sprofondare nella tristezza.
Sostenere il sé “buono e utile”, accettato dagli altri, è veramente ciò che cerchiamo? O forse esiste un approccio differente?
Recentemente chiesi a mia figlia se conoscesse la gioia che viene dal dare, a priori, senza voler nulla in cambio, che non viene dal voler indietro la gratificazione del sostegno a un’immagine di sé.
Questo non c’entra nulla con l’assecondare le aspettative dell’altro ma con il dare ciò che ti rende vivo. Questo onora la tua unicità.
C’è un tempo, un ritmo. Un flusso.
Allora le proposi di fare per tre mesi una sādhanā, un esercizio spirituale: cercare e trovare ogni giorno cinque azioni da offrire, la cui gioia consistesse nell’offerta stessa e non nel ritorno di qualcosa.
Quando si trova questa configurazione interiore radiante si diventa un sole. E il sole non ha bisogno del suo riflesso che ritorna.
Dissi a mia figlia di cercare cinque azioni che la facessero sentire un sole, ogni giorno.
Come ad esempio ascoltare un’amica, far da mangiare al cane, regalare una cosa propria, pregare per il mondo, fare un disegno da donare oppure una torta, una parola, qualunque cosa. Ma solo se facendolo le facesse provare gioia.
Tutto ciò ha anche un ritmo: se mi sento un sole per 10 minuti mentre ascolto un’amica, non lo sono più se i minuti diventano 15. Se sono un sole nel fare un piacere a qualcuno, non lo sono più se ne devo farne due. O se lo devo fare per due giorni di seguito.
È facile capire il ritmo. Basta osservare la radianza. Per quanto sono radiante?
Questa sādhanā non contiene il “dovrei”.
“Dovrei fare due torte perché quell’altro se lo aspetta” oppure “dovrei dare ascolto anche a lei altrimenti si offende”.
Il sole non contempla i condizionali e nemmeno il dovere!
Il sole risplende e basta e dona la sua luce perché non ha un fine.
Ci hanno educato a vivere di condizionali e questi danno vita ai sensi di colpa che bloccano il flusso.
Il donare diventa inoltre un’attività importantissima per non essere sempre e solo incentrati su se stessi. Qui non è al centro l’io ma il donare che accende.
E quando sono acceso, l’io perde di importanza, non si trova nemmeno più.
Sparisce in tanta luce. L’io è un’ombra che si dissolve nella radianza.
E considerando che la sofferenza nasce dall’ego, dall’attrazione e dalla repulsione, dal momento che l’ego ci molla un po’, anche la sofferenza va in vacanza.
Siete invitati a provare. Non a pensare.
Facciamo in modo che la filosofia diventi azione.
Non pensate di essere un sole, accorgetevi di esserlo.
Carlotta Brucco
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